evermore

evermore

Rilasciare a sorpresa un album capace di ridefinire una carriera nel mezzo di una paralizzante pandemia globale è un’ammirevole prova di forza; rifarlo appena cinque mesi dopo è una dimostrazione di sicurezza e concentrazione tanto audace da poter essere interpretata, a buon diritto, nel senso di una strigliata generale. Come folklore, evermore è un lavoro di squadra con Aaron Dessner, Jack Antonoff e Justin Vernon, che ha sfruttato al massimo le calde vibrazioni dello studio casalingo per puntare su arrangiamenti più essenziali e testi che spogliano l’anima, intimi e ricchi sul piano narrativo. La lista degli ospiti è estesa – le HAIM appaiono in ‘no body, no crime’, che sembra collocare Este Haim al centro del misterioso omicidio in una piccola cittadina, mentre i compagni di band di Dessner nei The National fanno presenza in ‘coney island’ – ma tutti si inseriscono nel mood piuttosto che fungere da distrazione (la percussiva ‘long story short’ avrebbe potuto serenamente essere su uno qualsiasi degli album dei The National dell’ultimo decennio). Altrove, ‘’tis the damn season’ è l’elegiaca ballata da vacanze a casa di cui questo disastroso anno non aveva capito di avere bisogno. Ma mentre gran parte dell’appeal di folklore derivava dalla stupita contemplazione di come questo assetto sembrasse avere sbloccato qualcosa in Swift, l’unico vero shock qui è la tempistica della pubblicazione in sé. Superato il trauma, il disco è un’estensione e una conferma del fascino e delle promesse del suo predecessore, non tanto una novità motivata da circostanze eccezionali, quanto piuttosto una cosa che semplicemente le capita di fare e bene.

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